Capitolo XVIII
(trascrizione a
cura di Giovanni Lo Presti, Salvatore Salmeri e Massimo Tricamo)
Assaltata e depredata la barca del padrone marittimo
Grazio Patti, carica di vettovaglie acquistate in Calabria Venne notizia
certificata che fu presa dalli corsari spagnuoli una barca di padron Grazio
Patti, carica d’alcuni viveri per servizio di questi cittadini. Sopra la quale
si ritrovavano Giovanni e Francesco Irato, Vincenzo Gatto, Antonino Maisano,
Francesco Cappadona, Francesco Maisano e Gaetano Arena come marinari, avendo
comprato dette vettovaglie in Calabria. E per il camino sopra del Capo di questa
[città] assaltata detta barca dalli corsari restò predata. E li detti marinari,
disbarcati nello scaro e marina di Fundachello, furono condotti nella città di
Rametta, ove furono posti in carceri molt’oscura. Si raccontò pure che sopra il
Capo di questa [città] si ritrovavano molte barche di corsari a favore delli
Spagnuoli, predando liberamente per non esserci ostacolo alcuno. Onde non
comparevano più imbarcazioni ancorché piccole da Calabria, le quali solevano
condurre qualche vettovaglia per sollievo di questo povero publico.
Notizie non molto attendibili sulla conquista della
Cittadella di Messina
Da più giorni che si discorreva in questa città sopra la conquista della
Cittadella, raccontandosi molte dicerie discordanti l’una dell’altra. Ed in
questo giorno fu molto continuo il rimbombo delle cannonate disparate in
Messina.
15 settembre 1719
La mancanza di viveri, aggravata dalle scorrerie dei
corsari, mette a dura prova i cittadini, in particolare i più poveri, ma anche
quelli che erano riusciti ad accumulare viveri, appaiono prostrati 15 settembre. Continuava guagliardamente la
penuria di qualunque sorte di viveri in questa città, non avendosi più speme di
sovragiungere vettovaglie da Calabria - come pria, benché scarsamente - per
timore della quantità di corsari quali infestavano tutta la costa dal Capo
d’Orlando sino a quello di Raisicolmo. E per la Comarca era pure sequestrato
ogni commercio, non vedendosi comparire cosa alcuna per sostento della povera
vita di quest’abitatori, tanto che tutti gli poveri sembravano quasi scheletri,
mesti ed addolorati, comparendo col retratto della morte nelli sembianti. Che
per certo era molto compassionevole la loro afflizione. E benché alcuni de’
principali e molti di quei che s’aveano ingerito (dal principio dell’assedio
delli Spagnuoli) di comprare e vendere avessero alcuna provisione ripostata,
nondimeno si venia a scemare dell’intutto. E da questi pure si campava con ogni
scarsezza.
Gli aristocratici di Pozzo di Gotto, fedeli alla
Corona di Spagna, pretendono di vendemmiare nelle vigne dei proprietari
terrieri milazzesi, quale ricompensa dei servigi da loro prestati Insistevano con
ogn’impegno li principali della città di Puzzo di Gotto - descrivendosi con tal
titolo per aver il maggiorasco nell’iniquità - di vendimiarsi per conto proprio
tutte le vigne di questi abitatori nella Piana, incalzando agli officiali
spagnuoli, li quali si ritrovavano in alcune parti di questa Comarca, che gli
Melazzesi erano stati rubelli del Re di Spagna e perciò si doveano tutti li
loro effetti incorporarsi [sequestrare,
ndr]. Ed attesa la fedeltà di essi puzzogottesi, li competivano almeno li
frutti di detti beni in ricompensa delli loro servizij, colla perdita d’alcuni
loro beni.
Era necessario
soffrire l’arrogante pretenzione di quelli: almeno avessero avuto
considerazione che sino al 1636 uscirono dal giogo dal quale vivevano da servi
di questa città, per aver in dett’anno toltosi il freno della servitù, per
essere stata prima detta città casale di questa [evidente riferimento campanilistico: Pozzo di Gotto difatti sino al
1639, e non 1636, faceva parte del territorio comunale di Milazzo. Ottenne
l’autonomia proprio in quell’anno, ndr].
Monumento sepolcrale di Hieronymus Maximilian Zumjungen
Militare tedesco
nato a Francoforte il 4 febbraio 1697, si arruolò nel reggimento Zumjungen dello zio Johann Hieronymus
von und zum Jungen (Francoforte 1660 - Bruxelles 1732), al servizio dell’imperatore
d’Austria. Impegnato inizialmente in Lombardia, nelle difese di Milano, fu promosso
sottotenente nel 1716 e quindi capitano nel 1717. A Milazzo, durante il
sanguinoso assedio condotto dagli Spagnoli per riconquistare la Sicilia
perduta, trovò la morte il 22 gennaio 1719 a soli 21 anni, ucciso da una palla
nemica. La sua scomparsa gettò nello sconforto lo zio, il quale, senza figli,
riponeva in lui - unico erede maschio della famiglia - le speranze di un futuro
per il proprio casato. Fu proprio lo zio, comandante supremo delle truppe
austriache in Sicilia nel 1718/19, a far erigere questo monumento sotto il
convento dei Cappuccini, in un poggio panoramico ubicato al di fuori delle mura
che cingevano la città, all’interno della quale era proibito seppellire
individui di fede luterana come il giovane capitano Zumjungen.
Il maestro Giovanni Cambria derubato dai malviventi
dell’hinterland (soprattutto di Pozzo di Gotto) a caccia di milazzesi Incalzati gli
villani di questa Comarca e quei specialmente che abitavano in detta città di
Puzzo di Gotto, li quali non attendendo alla campagna - come tutti erano soliti
- ma al rubbare con l’arme alle mani per loro proveccio e di quei che gli
reggevano. Poiché in ogni sera doveano entrar di guardia per le strade
principali da dove temevano che non li seguisse il sacco dalli Tudeschi con
alcun assalto improviso. E cossì in ogni conto si dovevano commettere gli
furti, altrimente non s’avrebbero possuto manutenere senz’alcuna facoltà. E
nemeno quei che li dominavano potevano sovvenirli, stanteché erano per sempre
stato molto familiari [segue lacuna nella
copia, ndr]. Per la necessità di continuo scorrevano il territorio andando
in caccia di poveri abitatori di questa. E, tralasciandosi a descriversi a
tutti quei che predavano, spogliandoli pure delle vesti ancorché lacere, con
procedere allo spesso colla composizione, pure li giorni scorsi fecero un
grandissimo bottino col guadagno molto ricco colla presa di maestro Giovanni
Cambria, solo per portar il carattere di milazzese. E di ciò non contenti, lo
portarono carcerato nella città del Castroreale. Ma questi, per esser un povero
maestro e non aver avuto formalità di regalare [corrompere, ndr] alli ladroni (come sovente esercitavano), da
prigioniero fu trattenuto.
Pungente ironia dell’Autore che sbeffeggia i rivali
di Pozzo di Gotto
Si dicea pure che in detta città di Puzzo di Gotto - nonché [non solo, ndr] da quei che si teneano di
schiatta nobilissima, pure dalli più rustici bifolchi - non passava giorno che
non si tenessero più consegli di guerra, molti trattati di pace, determinazioni
da grandi, impegni da principi, azioni eroiche, discorsi politici e di ragioni
di Stato, millantandosi che la loro città sarebbe stata un esemplare nel Regno.
E tanto stimata che avrebbe meritato tenersi depinta nelle gallerie più
memorabili per la loro fedeltà. Ma tutti gli trattati, tutte l’assemblee, tutti
gli discorsi e tutte le loro dechiarazioni, operazioni, consegli ed altri si
faceano nella strada publica, intervenendo tutti, pure quei che si ritrovavano
molto fatigati per aver dall’alba sino a notte atteso o alla zappa o
all’aratro, o altri consimili rusticali azzioni. Ed ognuno dava saggio del suo
perspicace intendimento. Ed alle volte si dismettea dell’intutto la
determinazione stabilita, poiché pochi villani dissentevano ed era necessario
condescendere con tutto che non fosse stato ragionevole. Poiché le voci ed il gracchiare
pervenivano sino alle stelle. Anzi la notte, se alcuno pure della più infima
plebe s’avesse imaginato o sognato qualunque sproposito che li piaceva,
nell’istante si facea a vedere nella piazza, chiamando all’arme. E si mettea
ogni cosa in molto bisbiglio, solamente erano concordi nell’assassinij e
ladronecci, ma li principali aveano il loro luogo nelle composizioni.
Umiliazioni subite dai milazzesi rifugiatisi a Pozzo
di Gotto durante l’Assedio Di più per
aversi ritrovato nella detta città molti cittadini e plebei con altri
principali, con alcune loro donne, per necessità - che per la contingenza della
guerra erano fuori questa città in tempo dell’assedio delli Spagnuoli - gli
Puzzogottesi, ed uomini e femine di qualunque condizione, continuamente li
tassavano per rubelli. Tanto che erano forzati soffrire l’ingiurie ed
imprecazioni che se li dicevano. Finalmente si sussurò tra la plebe e gente
villana che sarebbe stato molto profittevole che detti milazzesi fossero almeno
discacciati dalla loro città per togliersi alcuno scrupolo di tradimento. A tal
segno, anzi peggiore, pervenne nonché
l’infame alterigia, [pure] la malizia, senz’alcuna sussistenza delli
abitatori di Puzzo di Gotto.
16 settembre 1719
Imminente scambio di prigionieri tra Spagnoli ed
Imperiali. Di passaggio a Milazzo il tenente colonnello Uvottenghon,
prigioniero degli Spagnoli: viene trasferito a Reggio Calabria 16 settembre.
Comparì in questo giorno un tamburro delli Spagnuoli - col quale vennero in
questa città molte femine tudesche, le quali si ritrovavano tra gli Spagnuoli -
per aversi trattato il cambio [dei prigionieri] tra essi e li Tudeschi. Inoltre
venne in questa [città] il signor tenente coronello Uvottenghon, il quale si
ritrovava prigioniero delli Spagnuoli, e procurò l’imbarco per Reggio. Tutti
quei spagnuoli prigionieri, li quali si ritrovavano in questa città, li giorni
scorsi venuti per cambiarsi con altri prigionieri tudeschi, per non aver
comparso questi (che a momenti s’attendevano da Palermo) molto soffrivano.
Poiché - tolto gli loro officiali che aveano avuto il permesso del discarbo [disbarco, ndr] - l’altri erano
trattenuti sopra le medeme tartane che li condusse[ro]. Ottennero bensì che un
loro officiale partisse da questa per parlare con il loro generale che
persistea per questa Comarca, affinchè li fosse somministrato alcun denaro per
loro sostegno.
Epidemia semina la morte tra le truppe imperiali. Il
cordoglio dei Milazzesi per la morte di numerosi giovani militari Da più giorni ha
sovravanzata la mortalità delli poveri soldati tudeschi, con tutto che s’avesse
avuto quella cura conveniente a tutti gli ammalati. Ma per correre una epidemia
pestilenziale con dissentarie incurabili, non si puotè togliere il morbo, tanto
che ogni giorno perivano d’infermità più di venti, anzi più. Per certo che
recava molt’afflizione e cordoglio a tutti gli cittadini di questa, vedendo la
mortalità d’una gioventù fiorita. Oltre l’esser soldati sperimentati e d’animo
intrepido per aver avuto l’esercizio militare per più anni. E ritrovati in
altre guerre. E sembravano esser soldati veterani, oltreché erano nel fiore
della loro gioventù.
Iniziano le vendemmie. Ai residenti di Pozzo di
Gotto non viene consentito vendemmiare negli appezzamenti dei Milazzesi, i
quali devono faticare a causa della penuria di bottame, di carri e di
magazzini, questi ultimi distrutti dalle operazioni belliche L’antichissima
nobiltà delli puzzogottesi già restò defraudata nella sua orgogliosa
pretenzione di vendemiarsi per loro proprio conto le vigne delli abitatori di
questa [città]. E con tutto che per
molto tempo avessero insistito appresso gli comandanti spagnuoli, e col signor
viceré marchese di Lede, restarono delusi e cassati da troppo arroganti e
superbi. Ma non perciò cessarono di continuare nella malvagità che prima aveano
con questi cittadini. Ed in questo giorno da questi si principiò a farsi
liberamente la vendemmia delle loro vigne nel territorio, standosi bensì con
alcuna cautela, poiché sempre si faceano a vedere alcune battuglie di cavalli
spagnuoli e li villani della Comarca coll’arme, specialmente nella notte. Onde
furono forzati questi cittadini o vendersi li musti o[p]pure condurli nelle
terre convicine, particolarmente in detta città di Puzzo di Gotto, ove
abitavano molti abitatori di questa città, tanto per non ritrovarsi in questa
botti per repostarli, né magazeni (per esser tutti demoliti), né carri per
portarli, quanto per altre cause a loro necessarie.
Johann Hieronymus von und zum Jungen (Francoforte 1660 - Bruxelles 1732)
© Städel Museum, Frankfurt am Main
La carestia tormenta la popolazione. I mercanti
calabresi preferiscono spedire le proprie vettovaglie nell’area dello Stretto,
di gran lunga più tranquilla in quanto presidiata dalle navi britanniche S’ha attribuito
sino a questo giorno a gran miracolo della Maestà Divina che tutti questi
cittadini in generale non avessero perito per la molta carestia da più tempo
corsa nella città. Poiché, oltre le gravissime afflizioni sofferte tanto per
l’imminente pericolo di perder la vita con palle di cannoni e bombe disparate
dalli nemici spagnuoli nel tempo dell’assedio stretto, colle quali molti di
questa [città] restarono uccisi ed altri stroppiati, oltre la perdita di tutti
li loro beni rusticani ed urbani con il mobile disfatto e derubato, senz’aver
luogo ove abitare, ed oltre le pestilenziali infermità seguite colla morte di
più centinara, pure aversi redotto gli poveri abitanti a non aver formalità di
sostentarsi e vedersi perire di fame. Poiché non si ritrovavano nemeno gli
viveri più ordinarij, tanto che se
alcuni di essi s’avessero retrovato alcun capitale per comprar robba di
magnare, da qual parte puotea venire, dalla comarca e dal regno era
intercettata la communicazione [essendo] tutti a devozione delli Spagnuoli.
Dalla Calabria nemeno, così per la frequenza delli corsari nemici, come per
aver più lucro gli calabresi colla condotta di vettovaglie nel campo tudesco
nelle riviere della città di Messina che in questa città. Oltre [che] navigando
per Messina stavano più sicuri a non esser predati, poiché era molto
frequentata quella parte del mare delle navi inglesi ed altre imbarcazioni ben
armate a favore dell’arme cesaree. E cossì in questa povera città dell’intutto
disperanzata si vedeano perire di necessità, magiormente che se gli poveri in
tempo di pace almeno questuavano l’elemosina, in questi tanto calamitosi non
era permesso. Se pria gli cittadini vivevano con il loro traffico, doppo
dell’intutto questo fu tolto. Se altri negoziavano, già si levò. Ed infine se
la nobiltà con ogni sua sodisfazione si governava colle loro [proprie, ndr] rendite e frutti delli
loro effetti, questi disfatti e persi come si dovea manutenere? Almeno s’avesse
ritrovato il comestibile, ancorché di prezzo alterato, soggiungendosi che
l’istessa carestia apportava più apprensione. E la privazione generava
l’appetito pure di qualunque cosa di magnare.
Basta solo dirsi
che nel Capo - di circuito di miglia sei innanzi cultivato con vigne, alberi e
seminerij di legumi e con molte costerie abbondanti di diverse sorti d’erbe e
radici salutari - non si scorgea nemeno un filo d’erba, ancorché molto
selvaggio. E sembra impossibile e di nessuna credenza. E[p]pure tanto si vidde
nel territorio doppo. E nella Piana s’osservò l’istesso, quando prima era
cultivato d’ogni vivere. E se avesse naturalmente nato erba da magnarsi,
[queste sarebbero spuntate] nelle parti più lontane del territorio, poiché le
più vicine per lo spazio di più miglia e col circuito erano redotte in terreno
così sodo [a causa del]la quantità delle truppe e cavallerie delli Spagnuoli.
[Ma] nemeno questa si puotea raccogliere dalli poveri per il timore di non
esser sorpresi dalli Spagnuoli e villani paesani, con pericolo pure di perder
la vita.
Vengono liberati, grazie ad uno scambio di
prigionieri, i marinai assaliti dai corsari durante la navigazione dalla
Calabria. Raccontano particolari inerenti la prigionia a Rometta di Giacomo
Fusari Grimaldi In
questo giorno, sul tardi, retornarono quei poveri marinari, li quali furono
presi dalli corsari nemici con tutta la barca mentre venivano da Calabria con
alcuni viveri, come si disse a 14 di esso mese. Riferirono avere stato
carcerati nella città di Rometta e doppo cambiati come prigionieri con altri
soldati spagnuoli, tanto che vennero con un tamburro. E raccontarono aver
patito nelle carceri molte afflizioni, morendosi di fame per averli denudato,
allorché furono catturati. Anzi, rimproverati da quei paesani - ancorché loro
conoscenti - da rubelli e nemici delli Spagnuoli. Inoltre, raccontarono che in
dette carceri, ove essi furono inclusi nella città di Rometta, vi trovarono a
Don Giacomo Fusari e Grimaldi, quello che era stato inviato dall’ambasciadore
cesareo da Roma al signor generale Zumjungen, allorché [questi] governava tutte
le truppe Cesaree, nel mese di [segue
lacuna nella copia, ndr] scorso. E doppo inviato e dal detto signor
generale e dal signor generale de Mercij per la Comarca per la publicazione
dell’indulto generale (come s’ha descritto), unitamente con un padrone di barca
liparoto. Li quali per molto tempo erano stati carcerati. Anzi, il sudetto di
Fusari e Grimaldi [fu] tanto stretto che pure stava con li ferri alle mani. E
tutti due si morivano di fame con molti patimenti, senz’aiuto d’alcuno per
sostentarsi la povera vita. E penetrarono essi Melazzesi che fossero stati li
sudetti presi dalli corsari a devozione delli Spagnuoli sopra il Capo d’Orlando
e condotti prigionieri in detta città di Rometta. Anzi il Fusari richiese alli
sudetti che facessero sentire le sue afflizioni al padre provinciale de’ Padri
Francescani Reformati, suo zio, affinché li facesse somministrare in dette
carceri alcun sollievo per suo sostento.
17 e 18 settembre 1719
Altri dieci disertori spagnoli 17 e 18
settembre. In questo giorno ed il susseguente desertarono diece soldati
spagnuoli, quali si ritrovavano colle loro truppe in questa comarca,
conferendosi in questa città: otto di cavallo e due di fanteria. Li quali si
vendettero li loro cavalli e nell’istante, avuta la commodità, furono tutti
inviati con barca per Calabria.
19 settembre 1719
Le truppe spagnole ancora presenti a Rometta con
continue scorrerie nel territorio di Milazzo. Scampato sequestro
dell’imbarcazione del padrone marittimo Francesco Piraino con a bordo alcuni
notabili oltre l’equipaggio. Rimane tuttavia prigioniero lo stesso padrone
marittimo 19
settembre. Venne notizia in questa [città] che le truppe spagnuole sin a questo
giorno s’avessero trattenuto nella città di Rometta, facendo scorrerie sovente in
questo territorio e nella Piana e predando - scortate dalli paesani della
comarca - tutto quello che puoteano ritrovare con interesse speciale di questi
cittadini.
Il giorno scorso
avea partito dalla città di Messina il Padron Francesco Piraino con molti
marinari sopra la sua feluga, conducendo sopra essa li signori Don Giovanni
Colonna, Don Francesco Paulillo e Don Diego (suo fratello), Placido Costantino,
il sacerdote Don Diego Pisano ed altri passaggieri. E ritrovandosi la barca
sopra questo Capo, lontana dal lido da miglia diece per approdare in salvo, e
per avere preso alla larga per navigare con più franchezza, col motivo di non
palesarsi alli corsari che di continuo scorrevano in questi mari, ciò
nonostante fu assaltata d’altra barca corsara. Perloché, cercando non esser
catturata, sostenne la caccia per miglia otto. E quasi ritrovandosi vicino la
ripa non puotè evitare che non restasse presa dalla corsara, la quale se la
conducea verso l’altra ripa, ove dominavano gli Spagnuoli. Il che, osservatosi da questa città per aver
corso più ore dal principio che ebbe la feluga la caccia sin alla presa,
s’armarono più barche in questo Porto ben armate con molti soldati tudeschi e
s’incaminarono verso la barca corsara. Onde, vedendosi questa incalzata, fecero
disbarcare dalla feluga catturata solamente il sudetto Padron di Piraino,
portandolo sopra la sua propria. E si pose a fuggire lasciando in abbandono la
feluga presa. E così scampò a non essere presa, retirandosi nell’altra riviera
dove si ritrovavano truppe di spagnuoli. E detta feluga fu ricuperata senza
aver avuto campo gli corsari di svaligiarla. E fu condotta in questo Porto.
Pretendevano gli
ausiliarij che recuperarono detta feluga esser sua [loro, ndr], giaché la scamparono dagli mano dell’inimici. Ma per
non esser passato molto tempo e per essere gli marinari colle barche paesani,
solamente furono regalati [corrotti,
ndr] detti soldati tudeschi e svanì la pretenzione competente. Con tutto che
avesse condotto detta feluga alcun valsente [nulla di valore, ndr], così di
viveri come di droghe e panni ed altri delli passaggieri, li quali vennero
molto spaventati per il pericolo nel quale si ritrovavano già incorso.
20 settembre 1719
Ennesimi disertori - tre unità di cavalleria
spagnola - fuggiti col pretesto di foraggiare i cavalli 20 settembre Vennero tre
desertori spagnuoli soldati di cavallo fuggiti dalle loro truppe col motivo di
foraggiare in questo territorio. E nell’istante si vendettero li cavalli.
21 settembre 1719
L’accampamento spagnolo nel territorio di S. Filippo
del Mela. Dopo essere passati - attraverso la strada intercomunale (dromo) - per Milazzo, diverse unità di
cavalleria scortano sino a Merì e Barcellona gli infermi, molti dei quali non
giungono vivi a destinazione 21 settembre. Su l’alba si discoperse
da questa città nella Marina di San Biagio e dall’Archi, lontano da questa da
miglia sei, tutto il campo spagnuolo, con aversi accampato in detta Marina.
Bensì molte truppe di cavalleria - scortate da molti loro officiali e
comandanti - trascorsero innanzi conducendo gli infermi per il dromo nella
nostra Piana. La maggior parte delli quali restò morta per il viaggio. E non si
puotè penetrare ove andassero. S’intese doppo che gli infermi furono condotti
alla terra di Mirij e nel casale di Barsalona e lochi convicini.
Liberato il padrone marittimo Francesco Piraino. Si
teme la presenza di truppe nemiche nella Piana In questo
giorno retornò in questa [città] il padron Francesco Piraino, qual fu preso
sopra la sua feluga dalli corsari nemici sotto li 18 di detto mese, come si
scrisse. Raccontò che - con tutto che fosse stato conoscente dalli corsari,
qual erano da Palermo - pure fu spogliato colla perdita di onze cinque di
denari che tenea di sopra, allorché fu fatto prigione. Come pure delle fibbie
d’argento che tenea nelli scarpi.
Pure in questo
giorno uscirono nella Piana molti cittadini per vendemiare alcune loro vigne. E
benché gli principali di essa città non avessero mai uscito in detta Piana -
per il timore non tanto delli Spagnoli, quanto delli villani della Comarca -
nondimeno dagli congionti ed amici di quei che si ritrovano in detta Piana si
stava con molta perplessità ed apprensione, vendendosi tante truppe nemiche nel
territorio, avendo timore che non seguisse alcun danno alli loro parenti.
20 settembre 1719
Giungono via mare viveri anche per i civili 20 settembre. Vennero
in questo Porto due galere da Napoli, scortando alcune tartane con alcune provisioni
di vettovaglie.
Le due galere
venute il giorno scorso con le tartane si partirono da questa, procedendo per
il Faro di Messina a ritrovar le truppe tudesche. E benché gli viveri avessero
venuto per dette soldatesche, nondimeno restò alcuna porzione di nascosto per
sollievo delli paesani di questa, benché a caro prezzo.
22 settembre 1719
A causa della presenza di truppe nemiche nella Piana
- la cavalleria spagnola si spinge in prossimità del Floripotema per far bere i
cavalli - il comandante della Piazza proibisce ai civili di uscire dal centro
urbano per recarsi in campagna a vendemmiare, ordinando la chiusura delle porte
della città
22 settembre. Avuta la notizia questo signor barone Starembergh, coronello
comandante della Piazza, che il giorno scorso il campo spagnuolo s’avesse fatto
a vedere in questo territorio, procedendo innanzi, diede ordine questa mattina
che nessun cittadino di qualunque condizione puotesse uscire nella Piana per
vendemiare, serrandosi tutte le porte della città. Volendo prima essere sciente
degli andamenti di detti Spagnuoli, adoprandosi con ogni cautela per servizio
di Sua Cesarea e Catolica Maestà e beneficio di questa.
S’osservò da
questa città, oltre la notizia avuta, che la cavalleria spagnuola scorse per
questa Piana e venne sino alla contrata delli Molini per beverare gli cavalli.
Approdò in
questo Porto una tartana carica di molti soldati spagnuoli prigionieri.
S’attendea il cambio con altretanti tudeschi.
17 settembre 1719
Il Barca trae spunto dai giurati in carica per
descrivere minuziosamente l’intera procedura di elezione dei 4 amministratori
comunali (giurati) e dei 4 acatapani, ossia dei funzionari di polizia
municipale 17
settembre [annotazione fuori posto
aggiunta evidentemente a posteriori, ndr]. In questo giorno inopinatamente
si vidde una stravaganza e, benché discorsa, non perciò credibile. Si
ritrovavano dall’anno scorso [quali giurati] li signori Don Ferdinando Marullo de
Alarcon, Don Francesco Scarpace, Don Domenico Lucifero e Don Antonino D’Amico. Bensì l’ultimo dal principio - nonché
dell’ambrocco, [pure] dell’assedio delli Spagnuoli - si retirò nella Piana, ove
nel Casale di Santa Marina esercitava l’ufficio e di giurato e di capitano,
tenendo l’una e l’altra corte coll’elezione dell’altri officiali subalterni,
come si descrisse. Anzi, fuggiti gli Spagnuoli dal territorio, esso fece la
comparsa innanzi il signor generale tudesco, qual reggea e dominava in questa
città, e doppo se ne ritornò, retirandosi nella città di Santa Lucia, ove per
sempre si trattenne. Poiché riconosciuti dal medemo signor generale de Mercij e
dell’altro signor Zumjungen li tre giurati, questi soli ebbero l’incombenza di
proseguire il loro offizio (escluso l’altro d’esercitarlo). E vociferandosi in
questa città che molti pretendevano tal offizio, col pretesto che l’altri
aveano eccesso nel governo più dell’anno molti mesi, li sudetti spettabili
giurati, non volendo lasciare tal carica (coll’asserzione giustificata che nel
tempo dell’Assedio s’aveano obligato in più somme a diverse persone a loro
proprio nome, tanto per servizio del publico, come per le truppe di Piemonte e
Savoia in tempo che dominava il signor Missegla nella Piazza, [oltre ch]e per
l’appronto di frumenti e di viveri e per altre cose pure attinenti al militare,
volendo il comandante sudetto che in ogni maniera s’adempissero gli suoi ordini),
determinarono recorrere al signor generale Mercij, qual si ritrovava nella
città di Messina, con aversi conferito in quella il sudetto signor di Scarpaci.
Dal quale rappresentatosi l’antedetto, con tutto che pure assistessero molti
pretensori, il sudetto signor generale Mercij si fece a sentire esser
conveniente l’instanza del detto signor di Scarpaci, assicurandolo che non
s’avrebbe fatto novità. E di più li replicò che se ne retornasse in questa
città al suo governo.
Ma doppo la sua
venuta, instando gli pretensori appresso sudetto signor generale de Mercij, in
questo giorno si vidde che il baron de Starembergh, comandante della Piazza,
convocò in sua casa alli signori Don Francesco Proto de Alarcon, Don Ignazio
Siragosa, Don Antonino Muscianisi e Don Francesco Anselmo. Ed in virtù d’ordine
del sudetto signor generale Mercij li costituì per spettabili giurati in questa
città. Anzi, per altr’ordine separato - o incluso nell’espresso - elesse per
capitano di giustizia al signor Don Giovanni Colonna. E molt’altri pretensori,
che alla guagliarda nella città di Messina assisteano per la capitania e per la
giuratia, restarono delusi.
Nell’elezione
delli sudetti giurati molto si sussurrò da quasi tutti gli cittadini, nonché
dalli principali [aristocratici, ndr],
poiché questa povera città era privilegiata nel Regno. Che nell’elezione delli
sudetti giurati s’inviava dal vicegerente del dominante [sovrano, ndr] nel Regno, per l’offizio del signor Protonotaro
d’esso Regno, diretto al capitano di giustizia come suo delegato, tenesse
l’abilitazione per farsi detti giurati a voci. La quale consiste in tal
formalità, da che non vi è memoria di persona in contrario e da più secoli,
anzi per privilegio espresso. Primariamente si ritrovano cinquanta nobili della
città eletti [scelti, ndr] dal signor
viceré e per dett’officio di Protonotaro nomati «della Mastra». E morto uno,
s’elegge altro. Bensì non puossi alterare tal numero, con tutto che
nell’elezione sempre sia di minor numero. E questi s’eleggono delli più
principali, stimandosi a grand’onore esser compreso in tal numero. Inoltre si
ritrovano duicento persone della città, eletti per detta strada, nominare
dell’aggionti, comprendendosi in tal numero e principali nobili e cittadini e
maestranze, persone decorose. E pure essendo tal numero di duicento s’ottiene
l’elezione delli mancanti. Tanto che quello della mastra, come quello
dell’aggionti, non può eccedere.
E cossì, venendo
l’ordine per la creazione delli giurati, si promulga bando publico dal delegato
per tenersi tal abilitazione in giorno festivo. Qual venuto, si congregano li
signori giurati col signor delegato, conferendosi nella Casa seu Banca della
Città, ove in una stanza separata dall’altre si prepara un armaro lungo con
molti cascioni separati con l’apertura di sopra, nella quale vi sono due forami
che sporgono in ogni cascione, diviso pure questo in due parti. Affissandosi in
ogni cascione il nome di quei nobili che possono essere abilitati per giurati
con una polisa. Entrando nella detta stanza in ogni abilitazione il molto
reverendo Arciprete della città, ed alternativamente in una di esse, il padre
Priore del convento di San Domenico. E nell’altra l’[segue parola di ardua trascrizione, ndr] susseguente un padre
religioso forastiero, per non seguir alcuna frode. In un’altra stanza maggiore,
antecedente a quella nominata, assistono gli giurati con il suo [loro] maestro
notaro, colle sue [loro] sedie, assentati ad una tavola ben grande. Ed in altro
luogo separato il maestro notaro del delegato, colla sua sedia ed un boffettino
per notarsi da detti maestri notari le persone chiamate. Ed essendo l’ora proporzionata,
seguendo sempre doppo pranzo, in un vaso d’argento sono riposte le polise
consimili di tutti quelli che sono eletti per aggionti. E da un fanciullo
nobile a ciò deputato si scioglie a sorte da detto vaso una polisa. Ed,
espresso il nome, il banditore della città dal balcone di detta banca chiama ad
alta voce quella persona uscita a sorte, quale allo spesso si ritrova nel piano.
E tutte le volte che non avesse intervenuto, nell’istante dalli pretensori
s’invia a chiamare. Ed il banditore prosiegue a chiamar l’altri sussequentemente
usciti. Ed entrando detta persona, salendo una scala in detta banca, entra
nella stanza ove si deve far elezione di detti giurati, con darsi tante palle
nelle mani per quanto sono gli affissi in dett’armaro. Ed il chiamato deve
metter un palla per ogni cascione. E tutte le volte che vuole dare la voce a
favore del nominato e descritto in detto cascione mette la palla nel forame
dalla parte da dietro. E se vuole escluderlo, pone detta palla dalla parte
d’innanzi. E doppo descende per altra scala. E solamente dal numero di detti
aggionti si scielgono trentasei, poiché in tal numero e non più possono dar la
voce per esser complita detta abilitazione. Anzi, se delli chiamati di detti
aggionti uscissero due fratelli, il primo può dar la voce, con esser l’altro
escluso. E disbrigata la vocazione di detti aggionti, si serrano le porte. E
detto signor delegato, unitamente con li signori giurati, si numerano tutte le
sudette voci. Se sono al numero prefisso dal trentesimo sesto. E doppo si nota
dalli sudetti maestri notari il nome del descritto al primo cascione,
numerandosi tutte quelle voci che si diedero con l’inclusiva e l’altre pure che
si posero con l’esclusiva. E sussequentemente s’osserva il medemo ordine con
l’altri descritti nelli cascioni sequenti. Ed infine s’osserveranno tutte dette
voci di ognuno. E quelli dieci che avanzeranno nel numero delle voci con
l’inclusiva sono eletti per giurati. Di più, di quelli aggionti che saranno
chiamati al detto numero di trentasei, delle polise radunate in un vaso se ne
prenderanno diece, le prime scielte. E quest’erano eletti per accatapani e
notari tutti. S’apria il principale balcone di detta banca ed il banditore ad
alta voce espressava e li giurati e l’accatapani eletti al popolo convocato nel
piano. Avendo obligo detto signor delegato inviare detto scrutinio
all’eccellentissimo signor viceré per l’officio espressato. E sempre da Sua
Eccellenza - per via del Protonotaro del Regno - s’eleggevano [si sceglievano, ndr] quattro giurati
delli diece scrutinati ed abilitati da dett’aggionti ed altri quattr’accatapani
delli diece eletti.
La suddetta procedura di elezione, detta «della
mastra giurata o mastra serrata», entrò in crisi per iniziativa
dell’aristocratico Giovanni Parra Bensì, nell’anno [segue lacuna nella copia, ndr] si ruppe detta Mastra serrata dal
signor viceré in quel tempo, a contemplazione [su istanza, ndr] d’un nobile di questa città nomato Don Viangino o
Viginano Rarpa [anagramma di Giovanni
Parra, ndr]. Il quale - con tutto che non fosse stato scrutinato
dall’aggionti per giurato - fu eletto dal viceré per sua real secretaria, senza
consenso del Protonotaro, unitamente con Miguel Palmier Ganniziero, spagnuolo
da più anni residente in questo Reggio Castello. E venuti in questa [città] e
richiesta la possessione della giuratia, furono esclusi per esser contro
privilegio della città [privilegio, norma
applicabile solo nella città che ne fa richiesta, in questo caso Milazzo.
Risaliva al 1649 ed è stata trascritto dal barone Giuseppe Piaggia nella sua Illustrazione
di Milazzo del 1853 (pagg. 153 e segg.).
Tale normativa disciplinava proprio la procedura di elezione degli
amministratori comunali, ndr]. E benché s’avesse tolerato per questa volta
darsi il possesso al detto di Rarpa di giurato, coll’esclusione del Palmier,
quello, impegnatosi a viva forza, tanto s’adoprò nella città di Palermo, ove si
presenza da nuovo si conferì e nella quale risiedeva Sua Eccellenza [il viceré, ndr]. E con mezzi efficaci e
con somma di denaro che portò, [ottenne] ordine di darsi il possesso tanto ad
esso quanto al suo collega Palmier. Anzi, prevenendo che in nessun modo
s’avrebbe adempito l’ordine viceregio, ma consultatosi col Principe, fece
emanare l’ordine in persona del Castellano di questo Reggio Castello, dal
quale, per essere spagnuolo e per aver l’onore d’esser ammesso a tal dignità un
suo suddito residente nel Castello, furtivamente diede la possessione alli due
giurati fori dello scrutinio. Se ciò avesse recato cordoglio a tutti questi
abitatori e mormorazioni contro il Rarpa, sel può considerare chi fa
professione d’onore e stima la sua Patria. E da quel tempo in poi spesse volte
s’ha osservato che molti giurati hanno stato eletti da Sua Eccellenza per sua
secretaria, nonostante che non avessero andato nominati nello scrutinio delli
diece fatto dall’aggionti, in virtù del privilegio. E con tutto ciò, sino alla
elezione delli quattro giurati di sopra nominati, non s’ha mai pratticato che
in ogn’anno non s’avesse inviato dal Protonotaro del Regno al delegato per
tenersi la sudetta abilitazione per lo scrutinio delli diece giurati come per
il passato. Il peggio si è che, dovendosi gli privilegij mantenere collo
spargimento del proprio sangue, si aboliscano per malvagità ignorante
dell’abitatori. Motivo espresso di maldicenze, mormorazioni e contrasti. Nonché
tra gli nobili, pure nelli veri cittadini, amici fedeli della loro Patria.
Affisso nella fontana di piazza del Carmine un
cartello diffamatorio rivolto ai giurati in carica Avendosi pratticato
che allorché esistevano li giurati antecessori, e pretendendosi d’altri tal
carica, comparve un cartello infamatorio affisso nella fontana del Dio Mercurio
nel piano del Carmine contro essi giurati. Il che processe dalli malcontenti
per aversi dato l’occasione coll’opre loro. Poiché se gli nobili, trattenendosi
ne’ termini giustificati coll’unione dovuta, senza dar motivo nemeno alla
prebe, per certo non seguirebbero simil’inconvenienze con il loro proprio
disonore.
23 settembre 1719
Giunge da Napoli vascello carico di prigionieri
spagnoli in vista dello scambio coi prigionieri austriaci A 23 settembre.
Approdò in questo Porto un vassello venuto da Napoli con molti soldati spagnuoli
prigionieri, assieme con alcuni loro officiali. Nelli quali si retrovavano quei
che restarono presi nella città di Lipari allorché si rendette a descrizione,
come si scrisse. Tutti sudetti prigionieri furono confinati colle guardie nella
chiesa di Santa Caterina. S’attendea il cambio a momenti da farsi con li
tudeschi.
Ci si può recare nella Piana per vendemmiare, pur in
presenza di unità di cavalleria spagnola In questo giorno si puotè uscire
liberamente nella Piana da tutti questi cittadini per attendere alla vendemia
delle loro vigne, come per altri affari. Bensì non cessavano infestar il
territorio alcune squadre di cavalleria spagnuola.
Passaggio di truppe spagnole dirette a Castroreale e
provenienti da Rometta. Diserzione di sette militari spagnoli S’ebbe veridica
relazione che il campo spagnuolo, qual era nella città di Rometta, abbia
passato il dromo [arteria stradale di
collegamento, ndr] del territorio, con aver fatto alto nella Piana del
Castro Reale e nelle parti convicine. Osservandosi inoltre che alcune truppe
spagnuole pure avessero rimasto in Rometta o per quella Marina, trattenendosi
alcun’altre nella città di Puzzo di Gotto e Casale di Barsalona, affezionati
molto questi alla nazione di Spagna.
Si disse pure
che il campo spagnuolo, avendo dislogiato da quella Piana, avesse partito per
conferirsi o a Militello o nel contado di Modica o per Leonforte, discorrendo
ognuno secondo la sua opinione, non sapendosi distintamente il vero.
Desertarono in
questo giorno sette soldati spagnuoli, uno di cavallo e l’altri pedoni, fuggiti
dal sudetto campo nella marcia che fecero. E si retirarono in questa.
24 settembre 1719
24 settembre.
Nel meriggio di questo giorno un personaggio di qualità, inviato con un
tamburro da parte delli Spagnuoli, con aver entrato in questa città bendato ed
introdotto dal signor comandante della Piazza. Non si puotè penetrare la
cagione.
25 settembre 1719
Misterioso passaggio dal Porto di Milazzo di due
galere napoletane. Giungono da Palermo altre imbarcazioni cariche di
prigionieri imperiali in vista dello scambio coi prigionieri spagnoli 25 settembre.
Approdarono in questo Porto due galere di Napoli e, con tutto che s’avessero
fatto a vedere su l’ora di mezzogiorno, la sera partirono per il Faro di
Messina, avendosi prima fatto confabulazione con questo comandante da quello di
detto galere. E non si puotè in nessun modo sapere la causa, con tutto che
s’avesse indagato con ogni esattezza per penetrarsi la loro venuta
coll’instantanea partenza.
Nel medemo
giorno con alcune tartane vennero da Palermo in questa città molti soldati
tudeschi prigionieri per cambiarsi con altri prigionieri delli Spagnuoli, che
si ritrovavano da più giorni in questa.
26 settembre 1719
Ulteriore scambio di prigionieri 26 settembre.
Partirono da questa sopr’alcune barche da duecento soldati spagnuoli
prigionieri, nelli quali si comprendevano quei li quali si resero nella città
di Lipari: li giorni scorsi venuti da Napoli per unirsi colle altre truppe
spagnuole. Con aversi condotto nella Marina di questa Piana per unirsi col loro
campo esistente in questa Comarca. Anzi pervennero altri soldati tudeschi
affinché si eseguisse dell’intutto il cambio cogli spagnuoli.
Dieci disertori in fuga dai reggimenti di cavalleria
spagnoli
Comparvero diece soldati spagnuoli di cavallo con aversene fuggito in questa
città. Poiché ritrovandosi in questa Comarca o per foraggiare o per fare
scorrerie, o meglio per esser di battuglia nelle parti convicine d’essa Comarca,
disertarono. Ed avendosi venduto gli loro cavalli, come l’altri s’inviarono con
barca per Tropea in Calabria. Anzi, non più s’attendea a penetrare alcuna
relazione dalli sudetti desertori per aversi conosciuto non esser veridico
quello rappresentavano. E siccome piacea il desertamento delli Spagnuoli, per
in parte smembrarsi le loro truppe, altretanto non era di soddisfazione delli
comandanti che detti fuggitivi permanessero in questa Piazza. E per tutto il
tempo che non si retrovava la commodità dell’imbarco erano trattenuti con
alcuna cautela, sempre scortati da soldati tudeschi.
Prosegue la carestia Sieguiva così
atroce la carestia nella città d’ogni sorte di viveri con dolor eccessivo di
tutti gli cittadini di qualunque condizione. Che per aver continuato per molto
tempo si stima incredibile l’esplicazione, patendosi in tutto. E benché
s’avesse ritrovato, il pane scarsamente era fatto di farine fetide mescolate
con molti legumi. Perloché di malissima qualità e di carissimo prezzo tutte le
volte che si puotea avere. Circa l’altre vettovaglie non se ne discorrea,
poiché non n’apparea vestiggio alcuno e nemeno d’erbe. Ed il vino colorito
composto di mille imbrogli e con il prezzo esorbitante.
Molti spagnuoli
prigionieri ritrovati in questa città questa sera si devono imbarcare per
Palermo.
Capitolo XVIII
(trascrizione a
cura di Giovanni Lo Presti, Salvatore Salmeri e Massimo Tricamo)
Assaltata e depredata la barca del padrone marittimo
Grazio Patti, carica di vettovaglie acquistate in Calabria Venne notizia
certificata che fu presa dalli corsari spagnuoli una barca di padron Grazio
Patti, carica d’alcuni viveri per servizio di questi cittadini. Sopra la quale
si ritrovavano Giovanni e Francesco Irato, Vincenzo Gatto, Antonino Maisano,
Francesco Cappadona, Francesco Maisano e Gaetano Arena come marinari, avendo
comprato dette vettovaglie in Calabria. E per il camino sopra del Capo di questa
[città] assaltata detta barca dalli corsari restò predata. E li detti marinari,
disbarcati nello scaro e marina di Fundachello, furono condotti nella città di
Rametta, ove furono posti in carceri molt’oscura. Si raccontò pure che sopra il
Capo di questa [città] si ritrovavano molte barche di corsari a favore delli
Spagnuoli, predando liberamente per non esserci ostacolo alcuno. Onde non
comparevano più imbarcazioni ancorché piccole da Calabria, le quali solevano
condurre qualche vettovaglia per sollievo di questo povero publico.
Notizie non molto attendibili sulla conquista della
Cittadella di Messina
Da più giorni che si discorreva in questa città sopra la conquista della
Cittadella, raccontandosi molte dicerie discordanti l’una dell’altra. Ed in
questo giorno fu molto continuo il rimbombo delle cannonate disparate in
Messina.
15 settembre 1719
La mancanza di viveri, aggravata dalle scorrerie dei
corsari, mette a dura prova i cittadini, in particolare i più poveri, ma anche
quelli che erano riusciti ad accumulare viveri, appaiono prostrati 15 settembre. Continuava guagliardamente la
penuria di qualunque sorte di viveri in questa città, non avendosi più speme di
sovragiungere vettovaglie da Calabria - come pria, benché scarsamente - per
timore della quantità di corsari quali infestavano tutta la costa dal Capo
d’Orlando sino a quello di Raisicolmo. E per la Comarca era pure sequestrato
ogni commercio, non vedendosi comparire cosa alcuna per sostento della povera
vita di quest’abitatori, tanto che tutti gli poveri sembravano quasi scheletri,
mesti ed addolorati, comparendo col retratto della morte nelli sembianti. Che
per certo era molto compassionevole la loro afflizione. E benché alcuni de’
principali e molti di quei che s’aveano ingerito (dal principio dell’assedio
delli Spagnuoli) di comprare e vendere avessero alcuna provisione ripostata,
nondimeno si venia a scemare dell’intutto. E da questi pure si campava con ogni
scarsezza.
Gli aristocratici di Pozzo di Gotto, fedeli alla
Corona di Spagna, pretendono di vendemmiare nelle vigne dei proprietari
terrieri milazzesi, quale ricompensa dei servigi da loro prestati Insistevano con
ogn’impegno li principali della città di Puzzo di Gotto - descrivendosi con tal
titolo per aver il maggiorasco nell’iniquità - di vendimiarsi per conto proprio
tutte le vigne di questi abitatori nella Piana, incalzando agli officiali
spagnuoli, li quali si ritrovavano in alcune parti di questa Comarca, che gli
Melazzesi erano stati rubelli del Re di Spagna e perciò si doveano tutti li
loro effetti incorporarsi [sequestrare,
ndr]. Ed attesa la fedeltà di essi puzzogottesi, li competivano almeno li
frutti di detti beni in ricompensa delli loro servizij, colla perdita d’alcuni
loro beni.
Era necessario
soffrire l’arrogante pretenzione di quelli: almeno avessero avuto
considerazione che sino al 1636 uscirono dal giogo dal quale vivevano da servi
di questa città, per aver in dett’anno toltosi il freno della servitù, per
essere stata prima detta città casale di questa [evidente riferimento campanilistico: Pozzo di Gotto difatti sino al
1639, e non 1636, faceva parte del territorio comunale di Milazzo. Ottenne
l’autonomia proprio in quell’anno, ndr].
Il maestro Giovanni Cambria derubato dai malviventi
dell’hinterland (soprattutto di Pozzo di Gotto) a caccia di milazzesi Incalzati gli
villani di questa Comarca e quei specialmente che abitavano in detta città di
Puzzo di Gotto, li quali non attendendo alla campagna - come tutti erano soliti
- ma al rubbare con l’arme alle mani per loro proveccio e di quei che gli
reggevano. Poiché in ogni sera doveano entrar di guardia per le strade
principali da dove temevano che non li seguisse il sacco dalli Tudeschi con
alcun assalto improviso. E cossì in ogni conto si dovevano commettere gli
furti, altrimente non s’avrebbero possuto manutenere senz’alcuna facoltà. E
nemeno quei che li dominavano potevano sovvenirli, stanteché erano per sempre
stato molto familiari [segue lacuna nella
copia, ndr]. Per la necessità di continuo scorrevano il territorio andando
in caccia di poveri abitatori di questa. E, tralasciandosi a descriversi a
tutti quei che predavano, spogliandoli pure delle vesti ancorché lacere, con
procedere allo spesso colla composizione, pure li giorni scorsi fecero un
grandissimo bottino col guadagno molto ricco colla presa di maestro Giovanni
Cambria, solo per portar il carattere di milazzese. E di ciò non contenti, lo
portarono carcerato nella città del Castroreale. Ma questi, per esser un povero
maestro e non aver avuto formalità di regalare [corrompere, ndr] alli ladroni (come sovente esercitavano), da
prigioniero fu trattenuto.
Pungente ironia dell’Autore che sbeffeggia i rivali
di Pozzo di Gotto
Si dicea pure che in detta città di Puzzo di Gotto - nonché [non solo, ndr] da quei che si teneano di
schiatta nobilissima, pure dalli più rustici bifolchi - non passava giorno che
non si tenessero più consegli di guerra, molti trattati di pace, determinazioni
da grandi, impegni da principi, azioni eroiche, discorsi politici e di ragioni
di Stato, millantandosi che la loro città sarebbe stata un esemplare nel Regno.
E tanto stimata che avrebbe meritato tenersi depinta nelle gallerie più
memorabili per la loro fedeltà. Ma tutti gli trattati, tutte l’assemblee, tutti
gli discorsi e tutte le loro dechiarazioni, operazioni, consegli ed altri si
faceano nella strada publica, intervenendo tutti, pure quei che si ritrovavano
molto fatigati per aver dall’alba sino a notte atteso o alla zappa o
all’aratro, o altri consimili rusticali azzioni. Ed ognuno dava saggio del suo
perspicace intendimento. Ed alle volte si dismettea dell’intutto la
determinazione stabilita, poiché pochi villani dissentevano ed era necessario
condescendere con tutto che non fosse stato ragionevole. Poiché le voci ed il gracchiare
pervenivano sino alle stelle. Anzi la notte, se alcuno pure della più infima
plebe s’avesse imaginato o sognato qualunque sproposito che li piaceva,
nell’istante si facea a vedere nella piazza, chiamando all’arme. E si mettea
ogni cosa in molto bisbiglio, solamente erano concordi nell’assassinij e
ladronecci, ma li principali aveano il loro luogo nelle composizioni.
Umiliazioni subite dai milazzesi rifugiatisi a Pozzo
di Gotto durante l’Assedio Di più per
aversi ritrovato nella detta città molti cittadini e plebei con altri
principali, con alcune loro donne, per necessità - che per la contingenza della
guerra erano fuori questa città in tempo dell’assedio delli Spagnuoli - gli
Puzzogottesi, ed uomini e femine di qualunque condizione, continuamente li
tassavano per rubelli. Tanto che erano forzati soffrire l’ingiurie ed
imprecazioni che se li dicevano. Finalmente si sussurò tra la plebe e gente
villana che sarebbe stato molto profittevole che detti milazzesi fossero almeno
discacciati dalla loro città per togliersi alcuno scrupolo di tradimento. A tal
segno, anzi peggiore, pervenne nonché
l’infame alterigia, [pure] la malizia, senz’alcuna sussistenza delli
abitatori di Puzzo di Gotto.
16 settembre 1719
Imminente scambio di prigionieri tra Spagnoli ed
Imperiali. Di passaggio a Milazzo il tenente colonnello Uvottenghon,
prigioniero degli Spagnoli: viene trasferito a Reggio Calabria 16 settembre.
Comparì in questo giorno un tamburro delli Spagnuoli - col quale vennero in
questa città molte femine tudesche, le quali si ritrovavano tra gli Spagnuoli -
per aversi trattato il cambio [dei prigionieri] tra essi e li Tudeschi. Inoltre
venne in questa [città] il signor tenente coronello Uvottenghon, il quale si
ritrovava prigioniero delli Spagnuoli, e procurò l’imbarco per Reggio. Tutti
quei spagnuoli prigionieri, li quali si ritrovavano in questa città, li giorni
scorsi venuti per cambiarsi con altri prigionieri tudeschi, per non aver
comparso questi (che a momenti s’attendevano da Palermo) molto soffrivano.
Poiché - tolto gli loro officiali che aveano avuto il permesso del discarbo [disbarco, ndr] - l’altri erano
trattenuti sopra le medeme tartane che li condusse[ro]. Ottennero bensì che un
loro officiale partisse da questa per parlare con il loro generale che
persistea per questa Comarca, affinchè li fosse somministrato alcun denaro per
loro sostegno.
Epidemia semina la morte tra le truppe imperiali. Il
cordoglio dei Milazzesi per la morte di numerosi giovani militari Da più giorni ha
sovravanzata la mortalità delli poveri soldati tudeschi, con tutto che s’avesse
avuto quella cura conveniente a tutti gli ammalati. Ma per correre una epidemia
pestilenziale con dissentarie incurabili, non si puotè togliere il morbo, tanto
che ogni giorno perivano d’infermità più di venti, anzi più. Per certo che
recava molt’afflizione e cordoglio a tutti gli cittadini di questa, vedendo la
mortalità d’una gioventù fiorita. Oltre l’esser soldati sperimentati e d’animo
intrepido per aver avuto l’esercizio militare per più anni. E ritrovati in
altre guerre. E sembravano esser soldati veterani, oltreché erano nel fiore
della loro gioventù.
Iniziano le vendemmie. Ai residenti di Pozzo di
Gotto non viene consentito vendemmiare negli appezzamenti dei Milazzesi, i
quali devono faticare a causa della penuria di bottame, di carri e di
magazzini, questi ultimi distrutti dalle operazioni belliche L’antichissima
nobiltà delli puzzogottesi già restò defraudata nella sua orgogliosa
pretenzione di vendemiarsi per loro proprio conto le vigne delli abitatori di
questa [città]. E con tutto che per
molto tempo avessero insistito appresso gli comandanti spagnuoli, e col signor
viceré marchese di Lede, restarono delusi e cassati da troppo arroganti e
superbi. Ma non perciò cessarono di continuare nella malvagità che prima aveano
con questi cittadini. Ed in questo giorno da questi si principiò a farsi
liberamente la vendemmia delle loro vigne nel territorio, standosi bensì con
alcuna cautela, poiché sempre si faceano a vedere alcune battuglie di cavalli
spagnuoli e li villani della Comarca coll’arme, specialmente nella notte. Onde
furono forzati questi cittadini o vendersi li musti o[p]pure condurli nelle
terre convicine, particolarmente in detta città di Puzzo di Gotto, ove
abitavano molti abitatori di questa città, tanto per non ritrovarsi in questa
botti per repostarli, né magazeni (per esser tutti demoliti), né carri per
portarli, quanto per altre cause a loro necessarie.
La carestia tormenta la popolazione. I mercanti
calabresi preferiscono spedire le proprie vettovaglie nell’area dello Stretto,
di gran lunga più tranquilla in quanto presidiata dalle navi britanniche S’ha attribuito
sino a questo giorno a gran miracolo della Maestà Divina che tutti questi
cittadini in generale non avessero perito per la molta carestia da più tempo
corsa nella città. Poiché, oltre le gravissime afflizioni sofferte tanto per
l’imminente pericolo di perder la vita con palle di cannoni e bombe disparate
dalli nemici spagnuoli nel tempo dell’assedio stretto, colle quali molti di
questa [città] restarono uccisi ed altri stroppiati, oltre la perdita di tutti
li loro beni rusticani ed urbani con il mobile disfatto e derubato, senz’aver
luogo ove abitare, ed oltre le pestilenziali infermità seguite colla morte di
più centinara, pure aversi redotto gli poveri abitanti a non aver formalità di
sostentarsi e vedersi perire di fame. Poiché non si ritrovavano nemeno gli
viveri più ordinarij, tanto che se
alcuni di essi s’avessero retrovato alcun capitale per comprar robba di
magnare, da qual parte puotea venire, dalla comarca e dal regno era
intercettata la communicazione [essendo] tutti a devozione delli Spagnuoli.
Dalla Calabria nemeno, così per la frequenza delli corsari nemici, come per
aver più lucro gli calabresi colla condotta di vettovaglie nel campo tudesco
nelle riviere della città di Messina che in questa città. Oltre [che] navigando
per Messina stavano più sicuri a non esser predati, poiché era molto
frequentata quella parte del mare delle navi inglesi ed altre imbarcazioni ben
armate a favore dell’arme cesaree. E cossì in questa povera città dell’intutto
disperanzata si vedeano perire di necessità, magiormente che se gli poveri in
tempo di pace almeno questuavano l’elemosina, in questi tanto calamitosi non
era permesso. Se pria gli cittadini vivevano con il loro traffico, doppo
dell’intutto questo fu tolto. Se altri negoziavano, già si levò. Ed infine se
la nobiltà con ogni sua sodisfazione si governava colle loro [proprie, ndr] rendite e frutti delli
loro effetti, questi disfatti e persi come si dovea manutenere? Almeno s’avesse
ritrovato il comestibile, ancorché di prezzo alterato, soggiungendosi che
l’istessa carestia apportava più apprensione. E la privazione generava
l’appetito pure di qualunque cosa di magnare.
Basta solo dirsi
che nel Capo - di circuito di miglia sei innanzi cultivato con vigne, alberi e
seminerij di legumi e con molte costerie abbondanti di diverse sorti d’erbe e
radici salutari - non si scorgea nemeno un filo d’erba, ancorché molto
selvaggio. E sembra impossibile e di nessuna credenza. E[p]pure tanto si vidde
nel territorio doppo. E nella Piana s’osservò l’istesso, quando prima era
cultivato d’ogni vivere. E se avesse naturalmente nato erba da magnarsi,
[queste sarebbero spuntate] nelle parti più lontane del territorio, poiché le
più vicine per lo spazio di più miglia e col circuito erano redotte in terreno
così sodo [a causa del]la quantità delle truppe e cavallerie delli Spagnuoli.
[Ma] nemeno questa si puotea raccogliere dalli poveri per il timore di non
esser sorpresi dalli Spagnuoli e villani paesani, con pericolo pure di perder
la vita.
Vengono liberati, grazie ad uno scambio di
prigionieri, i marinai assaliti dai corsari durante la navigazione dalla
Calabria. Raccontano particolari inerenti la prigionia a Rometta di Giacomo
Fusari Grimaldi In
questo giorno, sul tardi, retornarono quei poveri marinari, li quali furono
presi dalli corsari nemici con tutta la barca mentre venivano da Calabria con
alcuni viveri, come si disse a 14 di esso mese. Riferirono avere stato
carcerati nella città di Rometta e doppo cambiati come prigionieri con altri
soldati spagnuoli, tanto che vennero con un tamburro. E raccontarono aver
patito nelle carceri molte afflizioni, morendosi di fame per averli denudato,
allorché furono catturati. Anzi, rimproverati da quei paesani - ancorché loro
conoscenti - da rubelli e nemici delli Spagnuoli. Inoltre, raccontarono che in
dette carceri, ove essi furono inclusi nella città di Rometta, vi trovarono a
Don Giacomo Fusari e Grimaldi, quello che era stato inviato dall’ambasciadore
cesareo da Roma al signor generale Zumjungen, allorché [questi] governava tutte
le truppe Cesaree, nel mese di [segue
lacuna nella copia, ndr] scorso. E doppo inviato e dal detto signor
generale e dal signor generale de Mercij per la Comarca per la publicazione
dell’indulto generale (come s’ha descritto), unitamente con un padrone di barca
liparoto. Li quali per molto tempo erano stati carcerati. Anzi, il sudetto di
Fusari e Grimaldi [fu] tanto stretto che pure stava con li ferri alle mani. E
tutti due si morivano di fame con molti patimenti, senz’aiuto d’alcuno per
sostentarsi la povera vita. E penetrarono essi Melazzesi che fossero stati li
sudetti presi dalli corsari a devozione delli Spagnuoli sopra il Capo d’Orlando
e condotti prigionieri in detta città di Rometta. Anzi il Fusari richiese alli
sudetti che facessero sentire le sue afflizioni al padre provinciale de’ Padri
Francescani Reformati, suo zio, affinché li facesse somministrare in dette
carceri alcun sollievo per suo sostento.
17 e 18 settembre 1719
Altri dieci disertori spagnoli 17 e 18
settembre. In questo giorno ed il susseguente desertarono diece soldati
spagnuoli, quali si ritrovavano colle loro truppe in questa comarca,
conferendosi in questa città: otto di cavallo e due di fanteria. Li quali si
vendettero li loro cavalli e nell’istante, avuta la commodità, furono tutti
inviati con barca per Calabria.
19 settembre 1719
Le truppe spagnole ancora presenti a Rometta con
continue scorrerie nel territorio di Milazzo. Scampato sequestro
dell’imbarcazione del padrone marittimo Francesco Piraino con a bordo alcuni
notabili oltre l’equipaggio. Rimane tuttavia prigioniero lo stesso padrone
marittimo 19
settembre. Venne notizia in questa [città] che le truppe spagnuole sin a questo
giorno s’avessero trattenuto nella città di Rometta, facendo scorrerie sovente in
questo territorio e nella Piana e predando - scortate dalli paesani della
comarca - tutto quello che puoteano ritrovare con interesse speciale di questi
cittadini.
Il giorno scorso
avea partito dalla città di Messina il Padron Francesco Piraino con molti
marinari sopra la sua feluga, conducendo sopra essa li signori Don Giovanni
Colonna, Don Francesco Paulillo e Don Diego (suo fratello), Placido Costantino,
il sacerdote Don Diego Pisano ed altri passaggieri. E ritrovandosi la barca
sopra questo Capo, lontana dal lido da miglia diece per approdare in salvo, e
per avere preso alla larga per navigare con più franchezza, col motivo di non
palesarsi alli corsari che di continuo scorrevano in questi mari, ciò
nonostante fu assaltata d’altra barca corsara. Perloché, cercando non esser
catturata, sostenne la caccia per miglia otto. E quasi ritrovandosi vicino la
ripa non puotè evitare che non restasse presa dalla corsara, la quale se la
conducea verso l’altra ripa, ove dominavano gli Spagnuoli. Il che, osservatosi da questa città per aver
corso più ore dal principio che ebbe la feluga la caccia sin alla presa,
s’armarono più barche in questo Porto ben armate con molti soldati tudeschi e
s’incaminarono verso la barca corsara. Onde, vedendosi questa incalzata, fecero
disbarcare dalla feluga catturata solamente il sudetto Padron di Piraino,
portandolo sopra la sua propria. E si pose a fuggire lasciando in abbandono la
feluga presa. E così scampò a non essere presa, retirandosi nell’altra riviera
dove si ritrovavano truppe di spagnuoli. E detta feluga fu ricuperata senza
aver avuto campo gli corsari di svaligiarla. E fu condotta in questo Porto.
Pretendevano gli
ausiliarij che recuperarono detta feluga esser sua [loro, ndr], giaché la scamparono dagli mano dell’inimici. Ma per
non esser passato molto tempo e per essere gli marinari colle barche paesani,
solamente furono regalati [corrotti,
ndr] detti soldati tudeschi e svanì la pretenzione competente. Con tutto che
avesse condotto detta feluga alcun valsente [nulla di valore, ndr], così di
viveri come di droghe e panni ed altri delli passaggieri, li quali vennero
molto spaventati per il pericolo nel quale si ritrovavano già incorso.
20 settembre 1719
Ennesimi disertori - tre unità di cavalleria
spagnola - fuggiti col pretesto di foraggiare i cavalli 20 settembre Vennero tre
desertori spagnuoli soldati di cavallo fuggiti dalle loro truppe col motivo di
foraggiare in questo territorio. E nell’istante si vendettero li cavalli.
21 settembre 1719
L’accampamento spagnolo nel territorio di S. Filippo
del Mela. Dopo essere passati - attraverso la strada intercomunale (dromo) - per Milazzo, diverse unità di
cavalleria scortano sino a Merì e Barcellona gli infermi, molti dei quali non
giungono vivi a destinazione 21 settembre. Su l’alba si discoperse
da questa città nella Marina di San Biagio e dall’Archi, lontano da questa da
miglia sei, tutto il campo spagnuolo, con aversi accampato in detta Marina.
Bensì molte truppe di cavalleria - scortate da molti loro officiali e
comandanti - trascorsero innanzi conducendo gli infermi per il dromo nella
nostra Piana. La maggior parte delli quali restò morta per il viaggio. E non si
puotè penetrare ove andassero. S’intese doppo che gli infermi furono condotti
alla terra di Mirij e nel casale di Barsalona e lochi convicini.
Liberato il padrone marittimo Francesco Piraino. Si
teme la presenza di truppe nemiche nella Piana In questo
giorno retornò in questa [città] il padron Francesco Piraino, qual fu preso
sopra la sua feluga dalli corsari nemici sotto li 18 di detto mese, come si
scrisse. Raccontò che - con tutto che fosse stato conoscente dalli corsari,
qual erano da Palermo - pure fu spogliato colla perdita di onze cinque di
denari che tenea di sopra, allorché fu fatto prigione. Come pure delle fibbie
d’argento che tenea nelli scarpi.
Pure in questo
giorno uscirono nella Piana molti cittadini per vendemiare alcune loro vigne. E
benché gli principali di essa città non avessero mai uscito in detta Piana -
per il timore non tanto delli Spagnoli, quanto delli villani della Comarca -
nondimeno dagli congionti ed amici di quei che si ritrovano in detta Piana si
stava con molta perplessità ed apprensione, vendendosi tante truppe nemiche nel
territorio, avendo timore che non seguisse alcun danno alli loro parenti.
20 settembre 1719
Giungono via mare viveri anche per i civili 20 settembre. Vennero
in questo Porto due galere da Napoli, scortando alcune tartane con alcune provisioni
di vettovaglie.
Le due galere
venute il giorno scorso con le tartane si partirono da questa, procedendo per
il Faro di Messina a ritrovar le truppe tudesche. E benché gli viveri avessero
venuto per dette soldatesche, nondimeno restò alcuna porzione di nascosto per
sollievo delli paesani di questa, benché a caro prezzo.
22 settembre 1719
A causa della presenza di truppe nemiche nella Piana
- la cavalleria spagnola si spinge in prossimità del Floripotema per far bere i
cavalli - il comandante della Piazza proibisce ai civili di uscire dal centro
urbano per recarsi in campagna a vendemmiare, ordinando la chiusura delle porte
della città
22 settembre. Avuta la notizia questo signor barone Starembergh, coronello
comandante della Piazza, che il giorno scorso il campo spagnuolo s’avesse fatto
a vedere in questo territorio, procedendo innanzi, diede ordine questa mattina
che nessun cittadino di qualunque condizione puotesse uscire nella Piana per
vendemiare, serrandosi tutte le porte della città. Volendo prima essere sciente
degli andamenti di detti Spagnuoli, adoprandosi con ogni cautela per servizio
di Sua Cesarea e Catolica Maestà e beneficio di questa.
S’osservò da
questa città, oltre la notizia avuta, che la cavalleria spagnuola scorse per
questa Piana e venne sino alla contrata delli Molini per beverare gli cavalli.
Approdò in
questo Porto una tartana carica di molti soldati spagnuoli prigionieri.
S’attendea il cambio con altretanti tudeschi.
17 settembre 1719
Il Barca trae spunto dai giurati in carica per
descrivere minuziosamente l’intera procedura di elezione dei 4 amministratori
comunali (giurati) e dei 4 acatapani, ossia dei funzionari di polizia
municipale 17
settembre [annotazione fuori posto
aggiunta evidentemente a posteriori, ndr]. In questo giorno inopinatamente
si vidde una stravaganza e, benché discorsa, non perciò credibile. Si
ritrovavano dall’anno scorso [quali giurati] li signori Don Ferdinando Marullo de
Alarcon, Don Francesco Scarpace, Don Domenico Lucifero e Don Antonino D’Amico. Bensì l’ultimo dal principio - nonché
dell’ambrocco, [pure] dell’assedio delli Spagnuoli - si retirò nella Piana, ove
nel Casale di Santa Marina esercitava l’ufficio e di giurato e di capitano,
tenendo l’una e l’altra corte coll’elezione dell’altri officiali subalterni,
come si descrisse. Anzi, fuggiti gli Spagnuoli dal territorio, esso fece la
comparsa innanzi il signor generale tudesco, qual reggea e dominava in questa
città, e doppo se ne ritornò, retirandosi nella città di Santa Lucia, ove per
sempre si trattenne. Poiché riconosciuti dal medemo signor generale de Mercij e
dell’altro signor Zumjungen li tre giurati, questi soli ebbero l’incombenza di
proseguire il loro offizio (escluso l’altro d’esercitarlo). E vociferandosi in
questa città che molti pretendevano tal offizio, col pretesto che l’altri
aveano eccesso nel governo più dell’anno molti mesi, li sudetti spettabili
giurati, non volendo lasciare tal carica (coll’asserzione giustificata che nel
tempo dell’Assedio s’aveano obligato in più somme a diverse persone a loro
proprio nome, tanto per servizio del publico, come per le truppe di Piemonte e
Savoia in tempo che dominava il signor Missegla nella Piazza, [oltre ch]e per
l’appronto di frumenti e di viveri e per altre cose pure attinenti al militare,
volendo il comandante sudetto che in ogni maniera s’adempissero gli suoi ordini),
determinarono recorrere al signor generale Mercij, qual si ritrovava nella
città di Messina, con aversi conferito in quella il sudetto signor di Scarpaci.
Dal quale rappresentatosi l’antedetto, con tutto che pure assistessero molti
pretensori, il sudetto signor generale Mercij si fece a sentire esser
conveniente l’instanza del detto signor di Scarpaci, assicurandolo che non
s’avrebbe fatto novità. E di più li replicò che se ne retornasse in questa
città al suo governo.
Ma doppo la sua
venuta, instando gli pretensori appresso sudetto signor generale de Mercij, in
questo giorno si vidde che il baron de Starembergh, comandante della Piazza,
convocò in sua casa alli signori Don Francesco Proto de Alarcon, Don Ignazio
Siragosa, Don Antonino Muscianisi e Don Francesco Anselmo. Ed in virtù d’ordine
del sudetto signor generale Mercij li costituì per spettabili giurati in questa
città. Anzi, per altr’ordine separato - o incluso nell’espresso - elesse per
capitano di giustizia al signor Don Giovanni Colonna. E molt’altri pretensori,
che alla guagliarda nella città di Messina assisteano per la capitania e per la
giuratia, restarono delusi.
Nell’elezione
delli sudetti giurati molto si sussurrò da quasi tutti gli cittadini, nonché
dalli principali [aristocratici, ndr],
poiché questa povera città era privilegiata nel Regno. Che nell’elezione delli
sudetti giurati s’inviava dal vicegerente del dominante [sovrano, ndr] nel Regno, per l’offizio del signor Protonotaro
d’esso Regno, diretto al capitano di giustizia come suo delegato, tenesse
l’abilitazione per farsi detti giurati a voci. La quale consiste in tal
formalità, da che non vi è memoria di persona in contrario e da più secoli,
anzi per privilegio espresso. Primariamente si ritrovano cinquanta nobili della
città eletti [scelti, ndr] dal signor
viceré e per dett’officio di Protonotaro nomati «della Mastra». E morto uno,
s’elegge altro. Bensì non puossi alterare tal numero, con tutto che
nell’elezione sempre sia di minor numero. E questi s’eleggono delli più
principali, stimandosi a grand’onore esser compreso in tal numero. Inoltre si
ritrovano duicento persone della città, eletti per detta strada, nominare
dell’aggionti, comprendendosi in tal numero e principali nobili e cittadini e
maestranze, persone decorose. E pure essendo tal numero di duicento s’ottiene
l’elezione delli mancanti. Tanto che quello della mastra, come quello
dell’aggionti, non può eccedere.
E cossì, venendo
l’ordine per la creazione delli giurati, si promulga bando publico dal delegato
per tenersi tal abilitazione in giorno festivo. Qual venuto, si congregano li
signori giurati col signor delegato, conferendosi nella Casa seu Banca della
Città, ove in una stanza separata dall’altre si prepara un armaro lungo con
molti cascioni separati con l’apertura di sopra, nella quale vi sono due forami
che sporgono in ogni cascione, diviso pure questo in due parti. Affissandosi in
ogni cascione il nome di quei nobili che possono essere abilitati per giurati
con una polisa. Entrando nella detta stanza in ogni abilitazione il molto
reverendo Arciprete della città, ed alternativamente in una di esse, il padre
Priore del convento di San Domenico. E nell’altra l’[segue parola di ardua trascrizione, ndr] susseguente un padre
religioso forastiero, per non seguir alcuna frode. In un’altra stanza maggiore,
antecedente a quella nominata, assistono gli giurati con il suo [loro] maestro
notaro, colle sue [loro] sedie, assentati ad una tavola ben grande. Ed in altro
luogo separato il maestro notaro del delegato, colla sua sedia ed un boffettino
per notarsi da detti maestri notari le persone chiamate. Ed essendo l’ora proporzionata,
seguendo sempre doppo pranzo, in un vaso d’argento sono riposte le polise
consimili di tutti quelli che sono eletti per aggionti. E da un fanciullo
nobile a ciò deputato si scioglie a sorte da detto vaso una polisa. Ed,
espresso il nome, il banditore della città dal balcone di detta banca chiama ad
alta voce quella persona uscita a sorte, quale allo spesso si ritrova nel piano.
E tutte le volte che non avesse intervenuto, nell’istante dalli pretensori
s’invia a chiamare. Ed il banditore prosiegue a chiamar l’altri sussequentemente
usciti. Ed entrando detta persona, salendo una scala in detta banca, entra
nella stanza ove si deve far elezione di detti giurati, con darsi tante palle
nelle mani per quanto sono gli affissi in dett’armaro. Ed il chiamato deve
metter un palla per ogni cascione. E tutte le volte che vuole dare la voce a
favore del nominato e descritto in detto cascione mette la palla nel forame
dalla parte da dietro. E se vuole escluderlo, pone detta palla dalla parte
d’innanzi. E doppo descende per altra scala. E solamente dal numero di detti
aggionti si scielgono trentasei, poiché in tal numero e non più possono dar la
voce per esser complita detta abilitazione. Anzi, se delli chiamati di detti
aggionti uscissero due fratelli, il primo può dar la voce, con esser l’altro
escluso. E disbrigata la vocazione di detti aggionti, si serrano le porte. E
detto signor delegato, unitamente con li signori giurati, si numerano tutte le
sudette voci. Se sono al numero prefisso dal trentesimo sesto. E doppo si nota
dalli sudetti maestri notari il nome del descritto al primo cascione,
numerandosi tutte quelle voci che si diedero con l’inclusiva e l’altre pure che
si posero con l’esclusiva. E sussequentemente s’osserva il medemo ordine con
l’altri descritti nelli cascioni sequenti. Ed infine s’osserveranno tutte dette
voci di ognuno. E quelli dieci che avanzeranno nel numero delle voci con
l’inclusiva sono eletti per giurati. Di più, di quelli aggionti che saranno
chiamati al detto numero di trentasei, delle polise radunate in un vaso se ne
prenderanno diece, le prime scielte. E quest’erano eletti per accatapani e
notari tutti. S’apria il principale balcone di detta banca ed il banditore ad
alta voce espressava e li giurati e l’accatapani eletti al popolo convocato nel
piano. Avendo obligo detto signor delegato inviare detto scrutinio
all’eccellentissimo signor viceré per l’officio espressato. E sempre da Sua
Eccellenza - per via del Protonotaro del Regno - s’eleggevano [si sceglievano, ndr] quattro giurati
delli diece scrutinati ed abilitati da dett’aggionti ed altri quattr’accatapani
delli diece eletti.
La suddetta procedura di elezione, detta «della
mastra giurata o mastra serrata», entrò in crisi per iniziativa
dell’aristocratico Giovanni Parra Bensì, nell’anno [segue lacuna nella copia, ndr] si ruppe detta Mastra serrata dal
signor viceré in quel tempo, a contemplazione [su istanza, ndr] d’un nobile di questa città nomato Don Viangino o
Viginano Rarpa [anagramma di Giovanni
Parra, ndr]. Il quale - con tutto che non fosse stato scrutinato
dall’aggionti per giurato - fu eletto dal viceré per sua real secretaria, senza
consenso del Protonotaro, unitamente con Miguel Palmier Ganniziero, spagnuolo
da più anni residente in questo Reggio Castello. E venuti in questa [città] e
richiesta la possessione della giuratia, furono esclusi per esser contro
privilegio della città [privilegio, norma
applicabile solo nella città che ne fa richiesta, in questo caso Milazzo.
Risaliva al 1649 ed è stata trascritto dal barone Giuseppe Piaggia nella sua Illustrazione
di Milazzo del 1853 (pagg. 153 e segg.).
Tale normativa disciplinava proprio la procedura di elezione degli
amministratori comunali, ndr]. E benché s’avesse tolerato per questa volta
darsi il possesso al detto di Rarpa di giurato, coll’esclusione del Palmier,
quello, impegnatosi a viva forza, tanto s’adoprò nella città di Palermo, ove si
presenza da nuovo si conferì e nella quale risiedeva Sua Eccellenza [il viceré, ndr]. E con mezzi efficaci e
con somma di denaro che portò, [ottenne] ordine di darsi il possesso tanto ad
esso quanto al suo collega Palmier. Anzi, prevenendo che in nessun modo
s’avrebbe adempito l’ordine viceregio, ma consultatosi col Principe, fece
emanare l’ordine in persona del Castellano di questo Reggio Castello, dal
quale, per essere spagnuolo e per aver l’onore d’esser ammesso a tal dignità un
suo suddito residente nel Castello, furtivamente diede la possessione alli due
giurati fori dello scrutinio. Se ciò avesse recato cordoglio a tutti questi
abitatori e mormorazioni contro il Rarpa, sel può considerare chi fa
professione d’onore e stima la sua Patria. E da quel tempo in poi spesse volte
s’ha osservato che molti giurati hanno stato eletti da Sua Eccellenza per sua
secretaria, nonostante che non avessero andato nominati nello scrutinio delli
diece fatto dall’aggionti, in virtù del privilegio. E con tutto ciò, sino alla
elezione delli quattro giurati di sopra nominati, non s’ha mai pratticato che
in ogn’anno non s’avesse inviato dal Protonotaro del Regno al delegato per
tenersi la sudetta abilitazione per lo scrutinio delli diece giurati come per
il passato. Il peggio si è che, dovendosi gli privilegij mantenere collo
spargimento del proprio sangue, si aboliscano per malvagità ignorante
dell’abitatori. Motivo espresso di maldicenze, mormorazioni e contrasti. Nonché
tra gli nobili, pure nelli veri cittadini, amici fedeli della loro Patria.
Affisso nella fontana di piazza del Carmine un
cartello diffamatorio rivolto ai giurati in carica Avendosi pratticato
che allorché esistevano li giurati antecessori, e pretendendosi d’altri tal
carica, comparve un cartello infamatorio affisso nella fontana del Dio Mercurio
nel piano del Carmine contro essi giurati. Il che processe dalli malcontenti
per aversi dato l’occasione coll’opre loro. Poiché se gli nobili, trattenendosi
ne’ termini giustificati coll’unione dovuta, senza dar motivo nemeno alla
prebe, per certo non seguirebbero simil’inconvenienze con il loro proprio
disonore.
23 settembre 1719
Giunge da Napoli vascello carico di prigionieri
spagnoli in vista dello scambio coi prigionieri austriaci A 23 settembre.
Approdò in questo Porto un vassello venuto da Napoli con molti soldati spagnuoli
prigionieri, assieme con alcuni loro officiali. Nelli quali si retrovavano quei
che restarono presi nella città di Lipari allorché si rendette a descrizione,
come si scrisse. Tutti sudetti prigionieri furono confinati colle guardie nella
chiesa di Santa Caterina. S’attendea il cambio a momenti da farsi con li
tudeschi.
Ci si può recare nella Piana per vendemmiare, pur in
presenza di unità di cavalleria spagnola In questo giorno si puotè uscire
liberamente nella Piana da tutti questi cittadini per attendere alla vendemia
delle loro vigne, come per altri affari. Bensì non cessavano infestar il
territorio alcune squadre di cavalleria spagnuola.
Passaggio di truppe spagnole dirette a Castroreale e
provenienti da Rometta. Diserzione di sette militari spagnoli S’ebbe veridica
relazione che il campo spagnuolo, qual era nella città di Rometta, abbia
passato il dromo [arteria stradale di
collegamento, ndr] del territorio, con aver fatto alto nella Piana del
Castro Reale e nelle parti convicine. Osservandosi inoltre che alcune truppe
spagnuole pure avessero rimasto in Rometta o per quella Marina, trattenendosi
alcun’altre nella città di Puzzo di Gotto e Casale di Barsalona, affezionati
molto questi alla nazione di Spagna.
Si disse pure
che il campo spagnuolo, avendo dislogiato da quella Piana, avesse partito per
conferirsi o a Militello o nel contado di Modica o per Leonforte, discorrendo
ognuno secondo la sua opinione, non sapendosi distintamente il vero.
Desertarono in
questo giorno sette soldati spagnuoli, uno di cavallo e l’altri pedoni, fuggiti
dal sudetto campo nella marcia che fecero. E si retirarono in questa.
24 settembre 1719
24 settembre.
Nel meriggio di questo giorno un personaggio di qualità, inviato con un
tamburro da parte delli Spagnuoli, con aver entrato in questa città bendato ed
introdotto dal signor comandante della Piazza. Non si puotè penetrare la
cagione.
25 settembre 1719
Misterioso passaggio dal Porto di Milazzo di due
galere napoletane. Giungono da Palermo altre imbarcazioni cariche di
prigionieri imperiali in vista dello scambio coi prigionieri spagnoli 25 settembre.
Approdarono in questo Porto due galere di Napoli e, con tutto che s’avessero
fatto a vedere su l’ora di mezzogiorno, la sera partirono per il Faro di
Messina, avendosi prima fatto confabulazione con questo comandante da quello di
detto galere. E non si puotè in nessun modo sapere la causa, con tutto che
s’avesse indagato con ogni esattezza per penetrarsi la loro venuta
coll’instantanea partenza.
Nel medemo
giorno con alcune tartane vennero da Palermo in questa città molti soldati
tudeschi prigionieri per cambiarsi con altri prigionieri delli Spagnuoli, che
si ritrovavano da più giorni in questa.
26 settembre 1719
Ulteriore scambio di prigionieri 26 settembre.
Partirono da questa sopr’alcune barche da duecento soldati spagnuoli
prigionieri, nelli quali si comprendevano quei li quali si resero nella città
di Lipari: li giorni scorsi venuti da Napoli per unirsi colle altre truppe
spagnuole. Con aversi condotto nella Marina di questa Piana per unirsi col loro
campo esistente in questa Comarca. Anzi pervennero altri soldati tudeschi
affinché si eseguisse dell’intutto il cambio cogli spagnuoli.
Dieci disertori in fuga dai reggimenti di cavalleria
spagnoli
Comparvero diece soldati spagnuoli di cavallo con aversene fuggito in questa
città. Poiché ritrovandosi in questa Comarca o per foraggiare o per fare
scorrerie, o meglio per esser di battuglia nelle parti convicine d’essa Comarca,
disertarono. Ed avendosi venduto gli loro cavalli, come l’altri s’inviarono con
barca per Tropea in Calabria. Anzi, non più s’attendea a penetrare alcuna
relazione dalli sudetti desertori per aversi conosciuto non esser veridico
quello rappresentavano. E siccome piacea il desertamento delli Spagnuoli, per
in parte smembrarsi le loro truppe, altretanto non era di soddisfazione delli
comandanti che detti fuggitivi permanessero in questa Piazza. E per tutto il
tempo che non si retrovava la commodità dell’imbarco erano trattenuti con
alcuna cautela, sempre scortati da soldati tudeschi.
Prosegue la carestia Sieguiva così
atroce la carestia nella città d’ogni sorte di viveri con dolor eccessivo di
tutti gli cittadini di qualunque condizione. Che per aver continuato per molto
tempo si stima incredibile l’esplicazione, patendosi in tutto. E benché
s’avesse ritrovato, il pane scarsamente era fatto di farine fetide mescolate
con molti legumi. Perloché di malissima qualità e di carissimo prezzo tutte le
volte che si puotea avere. Circa l’altre vettovaglie non se ne discorrea,
poiché non n’apparea vestiggio alcuno e nemeno d’erbe. Ed il vino colorito
composto di mille imbrogli e con il prezzo esorbitante.
Molti spagnuoli
prigionieri ritrovati in questa città questa sera si devono imbarcare per
Palermo.